La Cerra Agriturismo

La Sèmita di li chèi

Nicola a 7 mesi, pochi giorni dopo l’incendio

L’avevo visto per la prima volta nell’estate dell’83. Quell’estate, un terribile ed enorme incendio aveva bruciato tutta la fitta foresta che circondava Stazzo la Cerra. Solo a questo caro prezzo mi ero potuto accorgere dell’esistenza di un sentiero che da casa saliva dritto verso la “Sarra di lu Tassu”.        Un serpente costruito in mezzo al caos granitico. Alcune pietre erano state spostate per facilitare il passaggio delle persone. Il paesaggio intorno era quasi irreale: stupendo per via della roccia antica della Sardegna, e al tempo stesso devastato, per via di quell’incendio che nel mese di luglio di quell’anno percorse l’altopiano, e che alla periferia della cittadina di Tempio Pausania costò la vita a nove persone. Ma la cosa che più mi aveva colpito, mentre lo percorrevo  per la prima volta, furono delle terrazze rotonde costruite in pietra e terra nei posti più impensabili.

 

Non capivo. 

Chiesi agli anziani degli stazzi vicini.

Erano “chei”, parola che in gallurese vuol dire “carbonaie”.

 

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’incessante richiesta di carbone che seguì la prima rivoluzione industriale spinse inizialmente squadre di carbonai toscani, ma poi anche gli stessi abitanti degli stazzi, a sfruttare le risorse boschive per la produzione di legna, la cui combustione avrebbe poi portato alla creazione di carbone vegetale. Come? Con due semplici passaggi: in primo luogo l’abbattimento di piante e alberi di piccola e grossa taglia, che ebbe come inevitabile conseguenza una profonda trasformazione della vegetazione circostante. In un secondo momento si procedeva con la combustione della legna, da cui è possibile ottenere carbone vegetale mettendo in pratica con meticolosa precisione una tecnologia produttiva rimasta immutata sostanzialmente fin dall’epoca romana. La combustione avveniva appunto nelle “chei”, appositi spiazzi artificiali, perfettamente in piano, situati lungo i territori boschivi. Qui si verificava dunque la produzione del carbone vegetale: si costruiva un’apposita struttura, di forma conica, che si innalzava grazie alla sovrapposizione di ciocchi e tronchi di legna. La struttura veniva poi isolata con una doppia copertura erba e terra, e una volta avviata la combustione dall’interno della “chea” attraverso un foro situato nella parte superiore del cumulo, la si alimentava ogni dodici/quindici ore, inserendo della brace ardente all’interno e aprendo inoltre degli spiragli lungo le pareti che fungevano da sfiatatoi. Il processo di carbonizzazione durava, a seconda delle dimensioni della carbonaia, dai dieci ai quindici giorni, e terminava con il soffocamento del fuoco, lo smantellamento della carbonaia e il prelievo del carbone. Questo difficile e faticoso processo portava così, dagli iniziali 100 quintali di legna a circa 20 quintali di carbone.

 

Durante il periodo di chiusura del Natale 2020, a causa della pandemia di Coronavirus, assieme a tutta la famiglia ed all’amico Augusto Morbidux, attento conoscitore ed esploratore della Gallura, abbiamo iniziato a liberare il ripido sentiero dalla vegetazione infestante e ripulito il sottobosco per favorire la lenta ricrescita delle essenze pregiate (lecci, frassini, sughere, corbezzoli, alaterni e filirree). Un lavoro duro e faticoso, ma anche entusiasmante e che alla fine ha portato alla scoperta di ben quindici “chei”. Ora stiamo posizionando la segnaletica per proporlo ai nostri ospiti in azienda e agli amanti delle passeggiate in mezzo alla natura più selvaggia.